IL TRIBUNALE
   Ha  emesso   la   seguente   ordinanza   sugli   appelli   proposti
 nell'interesse  d  Mallardo  Feliciano e Dell'Aquila Giuseppe avverso
 l'ordinanza emessa in data 21 settembre 1998 dal tribunale di Napoli,
 III sezione penale, con la quale venivano rigettate nei confronti dei
 predetti imputati le istanze di  scarcerazione  per  scadenza,  nella
 fase  delle  indagini preliminari, del termine massimo della custodia
 cautelare;
                             O s s e r v a
   1. - Come risulta dagli atti trasmessi dall'a.g. procedente e dalla
 "posizione giuridica" successivamente acquisita, Mallardo Feliciano e
 Dell'Aquila Giuseppe sono sottoposti a custodia cautelare in carcere,
 tra gli altri, per il reato  di  associazione  mafiosa  in  forza  di
 ordinanza  coercitiva  emessa  dal  g.i.p. del tribunale di Napoli in
 data 3 luglio 1995, agli stessi notificata  il  4  luglio  1995.  Gli
 appellanti  vennero rinviati a giudizio con decreto del g.i.p. del 26
 aprile 1996 avanti alla Corte di assise di  Napoli,  IV  sezione,  la
 quale,  pero',  con  sentenza  25 febbraio 1997, dichiaro' la propria
 incompetenza per materia con riferimento, tra gli altri, al reato  di
 cui  al 416-bis c.p. e rimise gli atti al p.m. della D.D.A. di Napoli
 perche' promuovesse l'azione penale avanti al tribunale. A  tanto  il
 p.m. ha poi provveduto e in data 21 novembre 1997 e' stato emesso nei
 confronti degli odierni appellanti nuovo decreto di rinvio a giudizio
 da parte del g.i.p.
   Le  difese  hanno  formulato  istanze  di  scarcerazione  invocando
 l'applicazione del principio affermato dalla Corte costituzionale con
 sentenza n.  292/1998 e, con gli appelli proposti ai  seni  dell'art.
 310  c.p.p.    avverso  il  provvedimento di rigetto del tribunale di
 Napoli in data 21 settembre  1998,  deducono  l'erronea  applicazione
 della  legge  in  relazione agli artt. 303, primo comma, e 304, sesto
 comma, nonche' all'art. 13 della Costituzione; in  particolare  viene
 evidenziato che la sentenza della Corte, pur dichiarando infondata la
 questione  sollevata,  ha  affermato  il  principio  secondo  cui "il
 superamento di un periodo di custodia  pari  al  doppio  del  termine
 stabilito per la fase presa in considerazione determina la perdita di
 efficacia   della  custodia  anche  se  quei  termini  sono  sospesi,
 prorogati o - per stare al caso che qui interessa - sono ricominciati
 a decorrere".
   Con gli esposti  motivi  viene  lamentato  che  il  tribunale,  pur
 accogliendo  il  principio  affermato  dalla  suprema  Corte,  ha poi
 ritenuto che "il periodo intercorso tra il  decreto  che  dispone  il
 giudizio e la decisione di regressione continua come sempre ad essere
 conteggiato  soltanto  ai  fini  della decorrenza dei termini di fase
 dibattimentale, non essendo possibile cumulare i termini  relativi  a
 diverse fasi del processo".
   Si  sostiene  in  proposito  che  "l'interpretazione  adottata  dal
 tribunale e' assolutamente illogica e contrasta in modo evidente  con
 l'interpretazione   della   Corte   costituzionale   e   con   l'iter
 logico-giuridico  seguito  e  posto  a  sostegno   della   suindicata
 sentenza".  "invero la Corte costituzionale ... ha ritenuto che delle
 varie  interpretazioni  delle  norme   restrittive   della   liberta'
 personale  dell'individuo va adottata quella piu' favorevole ad esso,
 come impone la stessa logica dell'art. 13  della  Costituzione  ...",
 "seguendo  la  logica del tribunale l'imputato, rinviato a giudizio a
 distanza di un anno circa dall'esecuzione dell'ordinanza  davanti  al
 giudice   incompetente   che  avrebbe  potuto  emettere  sentenza  di
 incompetenza anche a distanza di un anno  e  mezzo  dal  decreto  che
 dispose  il  giudizio,  avrebbe  potuto  ricevere  un  nuovo rinvio a
 giudizio, senza che la misura potesse perdere di efficacia,  anche  a
 distanza  di  tre  anni  e  mezzo  dalla sottoposizione alla stessa".
 "Periodo che, ipoteticamente avrebbe potuto allungarsi con gli stessi
 effetti sino a quattro anni circa, nel caso di due regressioni, senza
 la possibilita' per l'imputato di conoscere attraverso l'accertamento
 dibattimentale le prove che potrebbero giustificare  la  carcerazione
 preventiva sofferta". "Quindi la regressione alla fase delle indagini
 determinata dall'errore giudiziario verrebbe ad incidere notevolmente
 sulla  liberta'  dell'individuo  senza la possibilita' di beneficiare
 dello sbarramento dato dai termini di fase  con  evidente  violazione
 dei principi di legge, costituzionale e procedurale".
   2. - Cio' posto, va osservato che non e' dubbio che nella specie, a
 seguito  della  sentenza  di  incompetenza pronunciata dalla Corte di
 assise di Napoli, si e' verificata la  regressione  del  procedimento
 nella  fase  delle  indagini  preliminari  e  la nuova decorrenza del
 termine della custodia cautelare relativo a tale fase, secondo quanto
 previsto dall'art. 303/2 c.p.p. La norma citata dispone, infatti, che
 "nel caso in cui, a seguito di annullamento con rinvio da parte della
 Corte di cassazione o per altra causa, il procedimento  regredisca  a
 una  fase  o  a  un  grado di giudizio diversi ovvero sia rinviato ad
 altro giudice, dalla data del provvedimento che dispone il regresso o
 il  rinvio  ovvero  dalla  sopravvenuta  esecuzione  della   custodia
 cautelare  decorrono  di  nuovo  i  termini  previsti  dal    comma 1
 relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento".
   La previsione dell'art. 303/2  era  stata  piu'  volte  oggetto  di
 questioni  di incostituzionalita', ma la Corte di cassazione ne aveva
 sempre ritenuto la manifesta infondatezza, osservando:
     che la norma, nel parificare, agli effetti dell'allungamento  del
 termine  di fase, la regressione del procedimento per nullita' (anche
 nel caso di gravi  vizi  di  costituzione  delle  parti)  alle  altre
 ipotesi  di  regressione  stabilite  dalla legge, non contrasta con i
 principi di ragionevolezza e di uguaglianza (art. 3  Cost.),  poiche'
 essa  intende  in  ogni  caso  bilanciare le conseguenze negative del
 riprendere ex novo l'iter processuale con il permanere delle esigenze
 cautelari,  consentendo  l'allungamento  del  termine  di  fase,   ma
 comunque  entro  il  termine  di  durata  complessiva  della custodia
 stabilito dall'art.  303/4 (Cass., sez. IV, n. 915/1993, Esposito);
     che non sussiste violazione dell'art. 13, ultimo comma, Cost., in
 quanto  la  norma  costituzionale  impone  che  la  legge   ordinaria
 stabilisca,  per il completamento dell'intero procedimento, il limite
 massimo alla carcerazione preventiva, ma  non  esige  anche  che  sia
 fissato   altro   limite   parziale   interno  a  ciascuna  fase  del
 procedimento stesso (Cass., sez. VI, n. 3525/93, Massidda);
     che  non  sussiste  violazione  degli  artt.  13   e   24   della
 Costituzione  perche',  da  un  lato,  e'  comunque previsto un tetto
 massimo della custodia  cautelare,  conformemente  a  quanto  dispone
 l'art.  13  della Costituzione, che riserva alla discrezionalita' del
 legislatore ordinario i casi e i modi della detenzione e, in  genere,
 di  ogni forma di restrizione della liberta' personale e, dall'altro,
 non puo' farsi commistione tra il diritto di  difesa  inviolabile  in
 ogni  stato  e  grado  del procedimento, che consente di eccepire una
 nullita', e i riflessi che il suo esercizio puo' avere in materia  di
 liberta',   essendo   rimessa   alla  discrezionalita'  difensiva  la
 valutazione della  convenienza  di  esercitare,  o  meno,  una  certa
 facolta', anche per le implicazioni, le conseguenze e le interferenze
 di  fatto in ogni direzione (Cass., sez. I, n. 421/1994, Gigliotti ed
 altri; Cass., sez. I, n. 1431/1996,  Affuso,  aveva  poi  escluso  la
 sussistenza  di  una  violazione  dell'art.  76 Cost., per eccesso di
 delega rispetto alla direttiva n.  61  dell'art.  2  della  legge  16
 febbraio 1987, n. 81).
   Peraltro,  con  ordinanza  22  novembre 1996 il tribunale di Reggio
 Calabria, in funzione di giudice di appello de libertate rilevava  di
 ufficio "questione di costituzionalita' dell'art. 303/4 c.p.p., nella
 parte  in  cui  non  prevede  che,  oltre  al superamento del termine
 complessivo, possa essere causa di scarcerazione anche il superamento
 del doppio del termine di fase, allorche' si verifichi la  situazione
 descritta nel comma due di detto art. 303".
   Nel  caso  che  dava  occasione  alla  questione vi erano state due
 successive regressioni del procedimento  nella  fase  delle  indagini
 preliminari,  a  seguito  di  sentenze  di  incompetenza, e la difesa
 istante aveva invocato l'applicazione dell'art. 304/6, rilevando  che
 dalla data dell'arresto degli imputati alla data dell'ultimo rinvio a
 giudizio  era  decorso  un  periodo  di tempo superiore al doppio del
 termine di fase.
   Il g.i.p. aveva rigettato la richiesta di scarcerazione sul rilievo
 che  la  situazione  degli  imputati  era disciplinata unicamente dai
 commi 2 e 4 dell'art. 303 e non anche dall'art. 304.  Con  l'atto  di
 appello  la difesa aveva riproposto la questione al tribunale e nella
 discussione aveva poi in via subordinata, denunciato l'illegittimita'
 costituzionale dell'art. 304/6 in quanto applicabile al solo caso  di
 sospensione  dei  termini  e  non  anche  ai casi di regressione, con
 conseguente irragionevole disparita' di trattamento.
   Il tribunale di  Reggio  Calabria  con  l'ordinanza  di  rimessione
 rilevava  che  la  questione  era  mal posta dalla difesa, poiche' la
 fattispecie del  regresso  "e'  disciplinata  dalle  norme  contenute
 nell'art.  303 c.p.p., e non da quelle contenute nell'art. 304 c.p.p.
 ... ogni riferimento all'art. 304 c.p.p. e' ... inconferente, poiche'
 disciplina situazioni affatto  differenti  ...  attiene  all'istituto
 della sospensione del termine di custodia cautelare ed ai suoi limiti
 cronologici".  Peraltro, anche il tribunale riteneva irragionevole la
 disparita' di disciplina tra istituti - quali appunto la  sospensione
 dei  termini  e  la  interruzione  dovuta  a regressione o rinvio del
 procedimento - che presentano una "sostanziale omogeneita'" in quanto
 "entrambi rappresentano degli accidenti che si verificano nel cammino
 del   procedimento,    perlopiu'    indipendenti    dalla    volonta'
 dell'imputato";  pertanto sollevava la questione di costituzionalita'
 nei termini sopra riportati (v. ord.  22 novembre 1996, trib.  Reggio
 Calabria,  Ardizzone ed altro in Gazzetta Ufficiale n. 45/1997, prima
 serie speciale, n. 756).
   La Corte costituzionale con la sentenza n. 292/1998  ha  dichiarato
 la   questione   non   fondata,   affermando  in  motivazione  che  -
 contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo - "il  superamento
 di un periodo di custodia pari al doppio del termine stabilito per la
 fase presa in considerazione, determina la perdita di efficacia della
 custodia  anche  se  quei  termini  ...  sono  cominciati a decorrere
 nuovamente a seguito  della  regressione  del  processo".  La  Corte,
 infatti,  ha ritenuto che il "limite finale" di durata della custodia
 cautelare nelle singole fasi, fissato dall'art. 304/6 nel doppio  del
 termine  di fase, trovi applicazione non solo nei casi di sospensione
 dei termini, come sembrerebbe indicare la collocazione  della  norma,
 ma  anche  in  quelli  di  proroga  o  di interruzione determinata da
 regressione o rinvio del procedimento ad altro giudice.
   3.   -   La   soluzione   interpretativa   adottata   dalla   Corte
 costituzionale   non   e'   giuridicamente  vincolante  nel  presente
 procedimento.
   Trattasi, invero, di sentenza interpretativa di rigetto resa  dalla
 Corte   costituzionale  e  tali  sentenze  non  sono  infatti  munite
 dell'efficacia erga omnes propria delle decisioni con le quali  viene
 dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale  di  una disposizione di
 legge, per cui assumono il  valore  di  mero  precedente,  certamente
 autorevole,  ma  non  vincolante  per  il  giudice  (ss.uu. 930/1996,
 Clarke, e 21/1998, Gallieri).
   Nel caso della sentenza n. 292/1998, la soluzione interpretativa  -
 ispirata   dall'intento   di  superare  la  denunciata  irragionevole
 disparita' di disciplina tra i casi di  sospensione  dei  termini  di
 custodia  e  quelli  di  interruzione  dovuta a regresso o rinvio del
 procedimento - finisce per creare una omogeneita' di  disciplina  tra
 tali  casi,  nei  quali l'allungamento della durata della custodia e'
 per lo piu' indipendente dalla volonta' dell'imputato, e quello della
 evasione, nel quale l'allungamento deriva  invece  dal  comportamento
 dell'imputato,  per  di  piu'  penalmente illecito (nella sentenza n.
 292/1998, in verita',  non  vi  e'  menzione  del  caso  di  evasione
 dell'imputato,  ma  anch'esso  rientra  tra  i "fenomeni che comunque
 possono interferire con la disciplina dei termini di fase", ai  quali
 tutti  si  riferirebbe  il  "limite finale" di cui all'art. 304/6, e,
 d'altro canto, l'art. 303/3  e'  espressamente  richiamato  dall'art.
 304/6).
   Anche  prescindendo da tale rilievo, il collegio ritiene di doversi
 discostare dalla soluzione interpretativa, pur  cosi'  autorevolmente
 indicata, per ragioni che attengono alla origine e alla ragione della
 norma  di  cui  all'art.  304/6,  alla  sua  collocazione  e alla sua
 letterale formulazione.
   Invero, l'esigenza di introdurre un "limite finale" di durata della
 custodia cautelare e' stata  avvertita  dal  legislatore  proprio  in
 relazione  all'istituto  della sospensione dei termini, che nelle sue
 concrete applicazioni avrebbe potuto determinare la  quiescenza  sine
 die   del   decorso   dei   termini.  Il  "limite  finale"  e'  stato
 originariamente introdotto per la durata complessiva  della  custodia
 cautelare  (art.   272/9 c.p.p. abrogato; art. 304/4 nuovo c.p.p. nel
 testo  vigente  anteriormente  alla  legge  n.  532/1995)  e  la  sua
 collocazione  (subito  dopo  le norme sulla sospensione dei termini e
 nel nuovo codice proprio nell'articolo intitolato  alla  sospensione)
 rende chiara l'intenzione del legislatore nel senso sopra indicato.
   Prima  dell'entrata  in  vigore  della  legge n. 532/1995, non pare
 fosse, in realta', neppure ipotizzabile  l'applicazione  del  "limite
 finale"  ai  casi  del  regresso o del rinvio del procedimento (salvo
 quando - beninteso - dopo tali vicende  fosse  intervenuta  anche  la
 sospensione    dei    termini):    infatti,   nel   codice   abrogato
 l'irragionevole prolungamento della custodia nei casi di  regressione
 o  rinvio  del  procedimento, disciplinati dal comma quinto dell'art.
 272, era assicurato dalla specifica previsione del comma sesto  dello
 stesso  articolo  che  fissava  limiti  massimi di durata complessiva
 della custodia inferiori al "limite finale" di cui al comma nono; nel
 nuovo codice, anteriormente alla legge  n.  532/1995,  i  termini  di
 durata   complessiva   della  custodia  previsti  dall'art.  303/4  -
 applicabili nei casi di  regressione  o  rinvio  del  procedimento  -
 risultavano  sempre  inferiori  al  "limite  finale"  di cui all'art.
 304/4.
   Cade, quindi, l'argomento "storico" prospettato per  sostenere  che
 il  "limite  finale"  abbia  portata  non  circoscritta  ai  casi  di
 sospensione dei termini.
   L'art. 15/1 della legge  n.  532/1995,  nel  riformulare  il  testo
 dell'art.    304,  ha  introdotto  un "limite finale" di durata della
 custodia anche per le singole fasi (il doppio dei termini di fase)  e
 ha  piu'  favorevolmente  disciplinato  il  "limite finale" di durata
 complessiva della custodia, prevedendo che questa non puo' superare i
 termini di cui all'art.  303/4 aumentati della  meta'  e  richiamando
 comunque  il  previgente  "limite"  (due terzi del massimo della pena
 temporanea), da applicarsi pero' solo piu' favorevole.
   Che tali previsioni riguardino unicamente i casi di sospensione dei
 termini  della  custodia  si  desume  dalla scelta del legislatore di
 tener  ferma  la  collocazione  della  norma  nell'articolo  dedicato
 appunto alla sospensione. Ne' pare che l'uso dell'avverbio "comunque"
 nell'art.  304/6  confermi  l'ipotesi  che  i  "limiti  finali" siano
 riferiti a tutti i fenomeni che possono interferire con la disciplina
 dei termini, e percio'  anche  ai  casi  di  proroga  dei  termini  e
 regressione  del  procedimento.  Ben  puo'  ritenersi,  infatti,  che
 l'avverbio valga invece a sottolineare la correlazione tra  la  norma
 sui  "limiti  finali"  e  tutte  le  varie ipotesi di sospensione dei
 termini previste nei cinque commi che precedono, nel senso cioe'  che
 i limiti operano quale che sia la causa della sospensione.
   Ma  vi  e'  una  ragione  ulteriore  che  induce a escludere che il
 "limite finale" di cui all'art.  304/6  sia  riferibile  ai  casi  di
 regressione o rinvio del procedimento.
   Occorre  infatti  considerare  che  l'art.  304/6,  come sostituito
 dall'art.  15/1 della legge n. 332/1995,  fissa  il  "limite  finale"
 relativo alla fase disponendo che "la durata della custodia cautelare
 non  puo'  comunque superare il doppio dei termini previsti dall'art.
 303, commi 1, 2 e 3". La norma, dunque, richiama espressamente i casi
 di regressione o rinvio del procedimento e il caso di  evasione,  nei
 quali   i   termini   decorrono  ex  novo  e  la  previsione  risulta
 perfettamente  giustificata  anche  per  chi  ritenga,  come  qui  si
 sostiene,  che  l'art.  304/6 si applichi solo in caso di sospensione
 dei termini: infatti, ben puo' darsi  il  caso  che  il  procedimento
 regredisca  nella  fase del giudizio e intervenga poi sospensione dei
 termini di custodia.
   Orbene, il significato del richiamo dell'art. 304/6 ai commi 2 e  3
 dell'art. 303 non puo' che essere quello di confermare, anche ai fini
 della  individuazione  del  "limite  finale" di durata della custodia
 nella fase, la diversa decorrenza dei termini nei casi del regresso o
 rinvio del procedimento e  della  evasione.  Cio'  comporta  che,  ad
 esempio,  regredito  il procedimento nella fase del giudizio di primo
 grado ed essendo stati poi sospesi i termini, la  custodia  cautelare
 non  potra' superare il doppio del termine di fase, calcolato pero' a
 partire dalla data del provvedimento che ha disposto  il  regresso  e
 non  dalla  emissione  del  provvedimento  che  originariamente aveva
 disposto il giudizio (in tal senso si e'  pronunciata  la  I  sezione
 della  Corte  di cassazione, con sentenza n. 1063/1996, Sarno, che ha
 confermato l'orientamento espresso da questo tribunale,  IV  sezione,
 con ordinanza ex art. 310 c.p.p. in data 21 dicembre 1995).
   Se  il  legislatore  del  1995,  ai  fini  della individuazione del
 "limite finale" di durata della custodia nella  fase,  avesse  inteso
 invece  equiparare  alle altre le situazioni di regresso o rinvio del
 procedimento e di evasione, si sarebbe limitato a prevedere  che  "la
 durata  della custodia cautelare non puo' comunque superare il doppio
 dei  termini  previsti  dall'art.  303,  comma  1...",  eventualmente
 aggiungendo, per maggior chiarezza: "anche nei casi di cui ai commi 2
 e 3 dello stesso articolo".
   Il  dato testuale appare dunque chiaro e il collegio e' obbligato a
 tenerne conto, poiche' "nell'applicare la legge non si puo'  ad  essa
 attribuire  altro  senso  che  quello  fatto  palese  dal significato
 proprio delle  parole,  secondo  la  connessione  di  esse,  e  dalla
 intenzione del legislatore".
   Peraltro, cosi' interpretato il richiamo dell'art. 304/6 ai commi 2
 e  3 dell'art. 303, appare ancor piu' evidente che il "limite finale"
 non si riferisce ai casi di regressione o rinvio del  procedimento  e
 di   evasione,   nei   quali   potrebbe  trovare  rarissima,  se  non
 impossibile, applicazione. Infatti, se detto limite nelle ipotesi  di
 cui  ai  commi 2 e 3 dell'art. 303 va computato a partire dal momento
 di nuova decorrenza del termine, esso (salva l'ipotesi eccezionale in
 cui si verifichino tre o piu' regressi) non puo' concretamente essere
 superato (in quanto ben prima viene a scadere l'ordinario termine  di
 fase)  se  non  intervenga, dopo la regressione, anche la sospensione
 dei  termini.  Sicche',  in  definitiva,  trova  ulteriore   conforto
 l'interpretazione  secondo  cui  il  "limite  finale"  della custodia
 cautelare nelle singole fasi pari al doppio del termine ordinario  di
 cui  all'art.  304/6  e' riferibile unicamente ai casi di sospensione
 dei termini.
   4. - Le sezioni unite della Corte di cassazione hanno ripetutamente
 affermato che, sebbene la sentenza interpretativa  di  rigetto  della
 Corte  costituzionale non sia munita di efficacia erga omnes, facendo
 essa sorgere un vincolo solo nel giudizio  a  quo  non  si  puo'  mai
 giungere  a  sostenere  che  per gli altri giudici la decisione della
 Corte costituzionale sia da ritenersi  inutiliter  data.  Sicche'  il
 giudice   che,   in   un   diverso   giudizio,   intenda  discostarsi
 dall'interpretazione   proposta   nella    sentenza    della    Corte
 costituzionale  non  ha  altra  alternativa  che  quella di sollevare
 ulteriormente la questione di legittimita', non potendo mai assegnare
 alla formula normativa un significato ritenuto incompatibile  con  la
 Costituzione (ss.uu. 930/1996, Clarke, e 21/1998, Gallieri).
   Il  collegio,  uniformandosi  a  tale  principio,  ritiene di dover
 sollevare nuovamente la questione  di  legittimita'  dell'art.  303/4
 c.p.p. per le medesime ragioni gia' disattese, all'uopo richiamando e
 facendo  proprie  le  motivazioni  dell'ordinanza  22 aprile 1996 del
 tribunale di Reggio Calabria.